Panorama cucina: il mio punto di vista

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Discernere “il bene dal male” in cucina e nel mondo agroalimentare ai giorni nostri è cosa davvero ardua. C’è chi trova ancora certezze nella tradizione, e chi entra in estasi nello stile contemporaneo di proporre nel piatto ingredienti particolari (spesso di provenienza e cultura estera) e/o di utilizzare tecniche di cottura “innovative”, benché molto raramente sia così: sarebbe più corretto affermare che grazie al progresso tecnologico sono stati innovati i mezzi di cottura, a partire dalla “cbt”, che non è nulla di nuovo ma oggi consente di raggiungere di certo risultati migliori grazie all’ausilio di moderni forni a vapore e termocircolatori ad immersione. In questo quadro di coesistenza commerciale tra il nostro passato ed il nostro futuro gastronomico, si evidenzia in modo sempre più forte l’influenza dei media, diventati molto più capillari e potenti nella comunicazione verso i consumatori e verso gli stessi chef grazie al boom dei social network. In qualità di consulente per la ristorazione, nonché di chef che questo settore lo ha visto crescere ed evolvere in prima persona dagli anni Ottanta ad oggi, non riesco a smettere di stupirmi (e preoccuparmi) per la tendenza degli esercizi attuali di costruire menu appositamente studiati sulla notorietà di talune immagini e video food sui circuiti social. Ma un’altra storia è prendere il coraggio di parlare della “sofisticazione” degli alimenti che avviene oggi direttamente nelle cucine degli chef: la verità è che oramai anche chi propone il suo “panettone artigianale” o le sue “pizze a lentissima lievitazione” ha alla propria portata semilavorati praticamente industriali (più sicuri e facili da lavorare nonché costanti nel gusto, a partire da collaudatissime miscele di farine) nonché polverine e gocce, tra aromi, miglioratori e addensanti, che stanno trasformando molte cucine in luoghi che somigliano più a laboratori di chimica, e che rivendono prodotti che oramai di “artigianale” – nel senso più originario di questo blasonato termine – hanno ben poco. Perché l’intento e le possibilità, in questo mondo attuale, sono quelle di poter sempre “aggiustare” una ricetta, ciascuno con i propri espedienti. A maggior ragione trovandosi davanti ad un numero sempre più elevato di clienti dal palato “omologato”, che non riesce più a distinguere la vera qualità delle materie prime e del gusto, anzi arriva oggi a non comprendere neanche le giuste e naturali differenze con i prodotti industriali o anche fittiziamente artigianali, che dentro un sempre più elevato tasso di zuccheri e grassi sta erodendo lentamente anche il celebre, innato buongusto nazionale. Si cerca di mangiare solo quel che si pensa di conoscere, ma che in realtà non si riconosce più: si adora acquistare cotolette CSM (acronimo per “carni separate meccanicamente”) uguali in ogniddove; si preferisce persino il gusto delle patatine chips non più classiche ma realizzate estrudendo da un macchinario un impasto di fiocchi di patate disidratate, acqua, sale e aromi; si pensa di scegliere al bar un più salutare “cornetto vegano” senza mai farsi scrupolo di leggerne l’etichetta ingredienti per scoprire che si tratta di un assemblaggio in bella forma di farina, grassi, acqua, e naturalmente sempre aromi. Rieducare noi stessi e ancor più i giovani ai sapori genuini delle ricette più naturali sta prendendo le dimensioni di una vera e importantissima priorità, soprattutto perché conviviamo con un nuovo stile di vita che vede sempre meno persone dedicarsi in prima persona alla cucina e alla produzione dei propri pasti “senza trucchi”. Se non s’interviene con decisione su un cambio di rotta, ne risentirà nei decenni a venire non solo la salute dei consumatori, ma anche le nostre tradizioni insite nelle ricette proprie della cucina italiana, che in questo modo si preparano, purtroppo, a diventare prima o poi solo un ricordo, sconfitti dalla supremazia dei piatti di gusto “globalizzato”. Ritorniamo dunque a cucinare senza far leva sui prodotti ultraprocessati per dare ai giovani il buon esempio nella personale cura quotidiana dei propri pasti; sforziamoci di non abituare troppo presto il palato dei bambini ai “nuggets con patatine fritte”, facili per risolvere in men che non si dica un capriccio, ma decisamente deleteri a fronte di un consumo frequente e prolungato nel tempo. Prendiamoci il tempo di conoscere, approfondire il cibo e anche trasmetterlo nella maniera più adeguata a chi ci circonda. Interveniamo in tempo, ciascuno nel proprio piccolo, affinché i valori del buongusto italiano e della dieta mediterranea non smettano di tramandarsi come patrimonio culturale imprescindibile delle genti della penisola intera.

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